Fotografia naturalistica e trappole fotografiche - intestazione
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Fotografia naturalistica: arte ed etica


La fotografia naturalistica come arte
 
Una spiaggia battuta dal vento d’autunno in Alaska, la tundra intorno, accesa nei suoi colori, immersa in un silenzio grandioso. Un orso bruno, enorme, immobile sulla sabbia, teso ad aspettare una preda che viene dal mare. Il tempo immobile da sempre sotto un cielo perennemente coperto di nubi.
Fotografare gli animali nel loro ambiente a volte regala sensazioni che sono difficili da descrivere a parole ma che un’immagine ben realizzata può riuscire a trasmettere. Allora la fotografia naturalistica, come ogni altro genere di fotografia, non può sottrarsi al compito di essere arte perché se arte è espressione di ciò che esiste fuori e dentro di noi sarebbe assurdo che proprio un mezzo così ricco di potenzialità non riuscisse a restituire emozioni ma si limitasse alla semplice riproduzione quasi meccanica di ciò che ci circonda.

Per chi scrive fotografare la natura e gli animali selvaggi è immergersi nel mondo senza l’uomo, un mondo in cui i nostri pensieri e le nostre convenzioni non contano assolutamente nulla e ci si 
ritrova disarmati faccia a faccia con un grande mistero: la vita, nella sua essenza. Fotografare, in fondo, è una scusa. Un pretesto per entrare in contatto con l’essenziale, per tuffarsi in una dimensione ove il tempo rallenta il suo fluire fino quasi a fermarsi e a costringerci a riflettere su noi stessi, sul nostro posto nel mondo come individui e come specie.

La fotografia naturalistica è un genere di fotografia, come dire che è anzitutto fotografia nel senso pieno del termine, ovvero arte figurativa. La fotografia dunque, è arte. E arte è comunicazione, espressione. Fotografare dunque vuol dire cercare di comunicare sensazioni ed emozioni, trasmettere un messaggio a chi guarda l'immagine. Del resto è del tutto evidente che una fotografia non è mai una mera riproduzione della realtà ma è sempre un’interpretazione di essa, o meglio, una semplificazione che passa attraverso un’interpretazione del fotografo il quale traduce uno spazio tridimensionale e denso di altri elementi non riproducibili (suoni e odori, sensazioni tattili) in un rapporto bidimensionale.

Fra le arti figurative, però, la fotografia è quella che per sua natura è più ancorata alla realtà che vediamo. Essa nasce per riprodurre la realtà, e da essa ci si aspetta anzitutto la documentazione, filtrata dalla sensibilità personale, di ciò che il fotografo ha visto, la testimonianza di un momento, di una situazione. Nel linguaggio comune e anche in quello tecnico o scientifico il termine fotografia viene usato per indicare la riproduzione perfetta di una situazione in un dato istante di tempo, la possibilità di fissare tutte le variabili ad un punto preciso della freccia temporale.

 
Fotografia naturalistica e reportage: il digitale
 
L’espressione artistica, dunque, nella fotografia nasce dall’interpretazione dei dati reali, che se in alcuni generi astratti sono soltanto un punto di partenza per ottenere un’immagine in cui il pensiero del fotografo prevale sulla realtà del soggetto ripreso, in tutti gli altri, ed in particolare nel reportage e nella fotografia naturalistica, sono intoccabili: trascenderli significa uscire da un genere ed entrare in un altro. Pensiamo ai magnifici reportage di Life, ormai diventati pezzi di storia, a quelle foto di guerra dove l’istante prevale sulla correttezza formale: immagini che sono arte che nasce dal racconto della realtà quale essa è, icone moderne in cui l’intervento del fotografo è consistito “solo” nell’essere lì al momento giusto, al centro dell’azione, in quelle condizioni di luce magari pensate in precedenza e ricercate quando possibile prima dell’azione stessa, nella scelta di un punto di vista piuttosto che di un altro.

Fotografia naturalistica e reportage fotografico hanno molto in comune. Il reportage è un racconto per immagini di una realtà che si suppone poco conosciuta da coloro che sono i destinatari del lavoro stesso, è una finestra su un mondo diverso, su situazioni, modi di vita, realtà e persone differenti da quelli vissuti dal pubblico cui è destinato. La fotografia naturalistica è il racconto per immagini del mondo senza l’uomo, di una realtà che l’uomo moderno quasi contrappone alla propria, della vita nel suo stato primordiale e nei suoi meccanismi naturali: una finestra su altre specie, su altre forme di vita. In entrambi i casi si tratta di raccontare, di mostrare una realtà ad altri. Anche oggi, nell’era digitale, chi di noi accetterebbe un reportage etnografico sugli Yanomami dell’Amazzonia o su una delle tante guerre che purtroppo ancora infestano il nostro pianeta in cui le fotografie fossero il risultato di pesanti interventi in post produzione volti a cambiare lo sfondo, a togliere svariati elementi di disturbo dall’inquadratura, a rendere leggibili ombre profonde ed alte luci contemporaneamente fino a stravolgere il macrocontrasto originale della scena ripresa? Allo stesso modo è a mio avviso inaccettabile il medesimo genere di intervento in una fotografia a soggetto naturalistico per il semplice fatto che la fotografia naturalistica deve mostrare ciò che vedono i nostri occhi e non un’immagine ideale che vive soltanto nella mente del suo autore, fatti salvi i dovuti “distinguo” a volte un po’ leziosi e conformisti sulla soggettività del vedere. I nostri occhi ed il nostro cervello non ci permettono di apprezzare il dettaglio nelle ombre profonde o nelle alte luci quando il contrasto è troppo elevato: possiamo farlo solo se ci concentriamo alternativamente o sulle une o sulle altre. I nostri sensi non ci permettono di vedere dietro ad un ramo, e i nostri soggetti hanno occhi che sono organi di senso e non sono perle che brillano di luce propria. È un problema di etica e di estetica: di estetica perché non è affatto detto che un immagine pulita e levigata digitalmente sia più bella di un’immagine ripresa senza artifici e volta solo a rappresentare il più possibile fedelmente la realtà; di etica perché quando un’azione qualsiasi è libera nel suo nascere e nel suo svilupparsi richiama prima o poi la domanda se l’azione stessa o le sue modalità siano giusti o sbagliati da un punto di vista morale, nelle grandi questioni come nelle cose più insignificanti. Anche nella fotografia, dunque. Una piccola, piccolissima questione, se vogliamo, in tempi come i nostri in cui la parola etica dovrebbe entrare in dibattiti ben più importanti.

Le nuove tecnologie digitali sono un grande aiuto per il fotografo. Hanno vantaggi enormi e indiscutibili, semplificano molti problemi, permettono di scattare di più e in molti casi meglio. Ma anche la fotografia naturalistica digitale è anzitutto fotografia. E fotografare significa “disegnare con la luce” (dal greco phos – photòs, luce e grapho, disegno, rappresento).
Quando il sensore raccoglie la luce che attraversa l’obiettivo e la traduce in bit 0 e 1 siamo nel campo della fotografia, solo il mezzo è cambiato: abbiamo un sensore fotosensibile al posto della pellicola fotosensibile. Ma quando interveniamo in post produzione, come si usa dire oggi, non utilizziamo più la luce per modificare l’aspetto dell’immagine digitale, ma, in ultima analisi, agiamo sulla differenza di potenziale che genera i valori logici che restituiscono l’immagine che visualizzata sullo schermo del computer: non stiamo più disegnando con la luce, ma stiamo modificando con altri mezzi qualcosa che era scritto con la luce e senza quasi rendercene conto siamo usciti dal campo della fotografia per entrare in un altro campo: quello dell’elaborazione digitale. Se è vero che il ritocco fotografico è vecchio quanto la fotografia è vero anche che lavorare in camera oscura significa pur sempre operare con la luce: realizzare bruciature e mascherature presuppone una stampa, l’utilizzo dell’ingranditore e la luce che passa attraverso il suo obiettivo, ovvero disegnare con la luce, appunto. 
È fuori discussione il fatto che l’utilizzo di programmi come Photoshop renda incomparabilmente più semplice ottenere un risultato simile a quello che qualche anno fa era raggiungibile solo con ore di lavoro: ma se il risultato è simile, il mezzo col quale questo è stato ottenuto è diverso ed è qualcosa che esce dai confini della fotografia propriamente detta. È chiaro che non mi riferisco a qualche semplice correzione: un lieve aumento di contrasto, cancellare un riflesso, perfino togliere un piccolo elemento di disturbo ai margini dell’inquadratura sono interventi che non cambiano l’immagine in misura significativa e che sarebbe assurdo biasimare, oltre che lievemente ridicolo. Ma il fotografo deve essere consapevole che questi interventi sono al di fuori della fotografia e deve quindi ridurli al minimo, perché rendere azzurro un cielo bianco con il computer è divertente e può anche produrre un’opera d’arte, ma non è fotografia, così come non è fotografia incollare a una stampa pezzi di stoffa e tappi di bottiglia per esprimere meglio un concetto che è solo nella nostra mente.

Oggi siamo in una fase in cui tutti i fotografi, naturalisti e non, hanno scoperto l’elaborazione digitale; purtroppo alcuni di loro si comportano, mi sia permesso il paragone un po’ forte, come bambini ai quali viene regalato un giocattolo nuovo a lungo desiderato: lo usano continuamente, lo esplorano, lo provano su tutto e in ogni occasione, a proposito e a sproposito. Forse, come i bambini, presto se ne stancheranno.
 
 
Fotografia naturalistica in condizioni controllate
 
Il parallelismo fra fotografia naturalistica e reportage sopra delineato, che non è certamente un assioma ma più semplicemente un interessante spunto di riflessione, ci porta a considerare un ulteriore aspetto dell’etica della fotografia naturalistica, un aspetto a mio parere ancora più importante che tocca un “modus operandi” vecchio quanto il genere: la cosiddetta “fotografia in condizioni controllate” ovvero effettuata in zoo, recinti e riserve faunistiche in cui gli animali non vivono in condizioni di libertà, oppure in situazioni di “imprinting” in cui l’animale selvatico, in seguito a qualche evento spesso traumatico, ha perduto ogni timore nei confronti dell’uomo e si comporta più o meno come un animale domestico. Questa pratica, di per sè, non ha nulla di inaccettabile: inaccettabile però è il fatto che le didascalie di libri e riviste non indichino dove e come l’immagine è stata ripresa, generando nel lettore la falsa impressione che le fotografie che sta ammirando siano il frutto di un paziente appostamento ad un animale selvatico. Chi acquista una rivista di natura, infatti, generalmente non lo fa soltanto per vedere belle fotografie di animali: con la rivista acquista anche una finestra sul mondo naturale, una finestra che permette di osservare belle immagini, ma anche di imparare qualcosa su ciò che ci circonda e soprattutto di sognare, di provare un po’ di quelle sensazioni che la nostra vita di uomini moderni spesso ci nega, e certamente è molto deludente sapere che quelle fotografie che ci hanno entusiasmato sono state scattate liberando per qualche minuto un tasso dalla gabbia in cui vive, o in qualche triste recinto, per quanto grande e accogliente sia. La fotografia naturalistica in condizioni controllate è molto più diffusa di quanto non si immagini, chi la pratica sostiene che essa permette di fotografare comportamenti sostanzialmente impossibili da riprendere in natura e che quindi permette di far conoscere meglio una specie. Questo però è vero solo in parte: fotografare un tasso che cammina sulla neve non è di certo una fotografia “sostanzialmente impossibile” da fare in natura, e sicuramente anche fotografare un lupo in libertà non lo è, pur essendo senza dubbio molto più difficile, eppure spesso e volentieri si ricorre ad immagini di questo tipo per illustrare un servizio su queste specie.
Ma ritorniamo al reportage. Non saremmo delusi se venissimo a sapere che i ritratti di un meraviglioso reportage etnografico sui Pigmei o sugli Yanomami fossero stati eseguiti in uno studio di New York con l’ausilio di modelli, improvvisati o professionisti? Non ci sentiremmo presi in giro se la rivista che lo ha pubblicato non ne avesse fatto cenno? La fotografia naturalistica ed il reportage ci mostrano immagini provenienti da altri mondi: guai a svilirle mutandone la natura, accontentandosi di pubblicare o di leggere un servizio che solamente imita fotografia naturalistica e reportage. Il problema è certamente di non facile soluzione, perché è soprattutto un problema di cultura naturalistica e di educazione all’immagine. Posto che una rivista per sopravvivere deve vendere, ci vuole certamente coraggio da parte di un editore nel decidere di pubblicare un servizio illustrato da fotografie riprese esclusivamente in natura, magari ricche di fascino ma non del tutto ineccepibili dal punto di vista della qualità intesa come estrema nitidezza, equilibrio del contrasto, assenza di grana e quant’altro, quando verosimilmente si dispone anche di fotografie perfettamente allineate a questi canoni scattate in condizioni controllate. Ma non segnalare questo tipo di riprese nelle didascalie non rende un buon servizio ai lettori, specialmente quando la rivista parla di natura e di fotografia e dovrebbe avere lo scopo di diffondere la cultura naturalistica e l’educazione all’immagine. 

Fotografare una specie come il lupo allo stato selvatico nel suo ambiente naturale è un'attività che costa parecchio tempo e fatica ma che ripaga con grandissime soddisfazioni e soprattutto costringe il fotografo ad entrare nell'ambiente naturale come difficilmente accade con altri soggetti, obbliga a conoscere e ad imparare, insegna ed essere umili e ad avere pazienza. Certo, è più facile andare un paio di giorni al Bayerischer Wald a "fare" i lupi, come dice qualche fotografo abituato alla filosofia del "mordi e fuggi", ma se la fotografia naturalistica vuole avere qualcosa da dire deve sforzarsi di non percorrere sempre la via più facile e di non svilire i suoi soggetti più interessanti. In fondo, è meglio una brutta foto ad un lupo selvatico, invisibile e inafferrabile o una bella immagine di un lupo ben pasciuto che ogni giorno, alle sei del mattino, si fa puntualmente trovare in un punto preciso di un'area faunistica, in mezzo ai fiori di campo?
 

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